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Ep. XXXIV – Fonte e natura dell’autorità episcopale

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Ep. XXXIV - Fonte e natura dell'autorità episcopale
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FONTE E NATURA DELL’AUTORITA’ EPISCOPALE

 

L’insegnamento del concilio sulla fonte e la natura dell’autorità episcopale può essere criticato per i seguenti motivi:

  1. Comporta chiaramente l’eresia, secondo cui vi sarebbero due capi della Chiesa, testo (I);
  2. Il testo in questione non è stato corretto, il che comporta la possibilità che venga citato fuori dal contesto per sostenere tale eresia;
  3. La “Nota preliminare” è sminuita nella sua forza dal fatto di non essere per nulla “preliminare”, come sostiene, poiché si trova alla fine del lungo documento[1] e quindi non è facilmente accessibile al lettore;
  4. Nella misura in cui la Nota giunge all’attenzione del lettore, essa non ripudia la suddetta eresia, ma continua ad implicarla, anche se in modo più oscuro;
  5. Il concilio propone altre dottrine innovative a supporto della stessa eresia ossia quella secondo la quale l’autorità episcopale, sia diocesana sia conciliare, deriverebbe dalla consacrazione e quella conciliare verrebbe attualizzata dal papa in occasione di un concilio.

In tutti questi modi, il concilio erode l’insegnamento cattolico sul primato del papa e sulla struttura gerarchica della Chiesa, dando un peso eccessivo all’idea di un Collegio episcopale; conferisce a tale Collegio l’aspetto di un Capo della Chiesa, che riceve la suprema e piena autorità da Dio stesso. Tale autorità episcopale, inoltre – in un mondo impregnato di mentalità democratica e nel contesto di un concilio che opera in modo democratico con il papa, il quale agisce poco più di un primus inter pares -, può essere troppo facilmente intesa come democratica.

Il nuovo principio di collegialità nella forma del “Collegio Apostolico” diede ai Padri conciliari l’occasione di cui avrebbero avuto bisogno un anno dopo[2] per sostenere la necessità di una proliferazione delle Conferenze episcopali; esso si consolidò e trovò espressione liturgica nella concelebrazione con cui papa Paolo VI avrebbe aperto la Terza Sessione del Concilio in compagnia di 24 Padri conciliari[3].

Successivamente, nonostante tutte le violenze procustee[4], cui aveva sottoposto la Verità cattolica, il nuovo principio di collegialità sarebbe stato sancito nel codice di diritto canonico del 1983 come insegnamento ufficiale della Chiesa. Notiamo che il relativo canone 749.2[5] non qualifica più l’esercizio straordinario episcopale della suprema e piena autorità in relazione all’autorità propria del papa. In questo modo il canone in questione conferisce alla collegialità un’importanza maggiore persino di quanto non faccia la Lumen Gentium, sia nella sua Nota che nel corpo del documento – evoluzione dogmatica?

È chiaro che l’eterodossia, per il solo fatto di essere iscritta nel diritto canonico, non acquista alcuna autorità; rimane l’eterodossia che era prima. Come una legge che non corrisponde alla Giustizia non è legge, così una legge che non corrisponde alla Verità non è legge.

Ripetiamo quanto abbiamo scritto altrove: Come possiamo immaginare che tali dottrine, una volta sancite dal Magistero e persino dal diritto canonico, possano mai essere ribaltate, se non con spargimento di sangue?[6]

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[1] Dopo oltre 60 pagine, nella traduzione di padre Flannery OP sul quale si fonda il presente libro.

[2] Nel documento Christus Dominus.

[3] RdM V 1.

[4] Procuste, una figura della mitologia greca che forzava gli ospiti a stare nel letto tramite torture o mutilazioni.

[5] CIC can. 749.1: ‘Infallibilitate in magisterio, vi muneris sui, gaudet Summus pontifex… ; can. 749.2: Infallibilitate in magisterio pollet quoque Collegium Episcoporum…’ – Il papa possiede l’infallibilità … anche il collegio episcopale possiede l’infallibilità.

[6] Devo questa riflessione a padre C. R.

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